Romano Amerio è la risposta a Enzo Bianchi

(di Francesco Agnoli, su Il Foglio)
Sono reduce dalla lettura dell’ultimo libro di Enzo Bianchi, Per un’etica condivisa (Einaudi), e non posso non riflettere sulla spaventosa distanza che esiste tra il pensiero di questo famoso monaco mediatico e l’ortodossia cattolica. L’errore di fondo, che inficia tutto il ragionamento di Bianchi, è quell’ ottimismo mondano che si è insinuato profondamente nel pensiero ecclesiastico e cattolico nell’epoca del post Concilio. Mondano, intendo, perché ignora o sminuisce del tutto l’esistenza del peccato. “Quando la Chiesa, scriveva parecchi anni fa il Cardinal Journet al cardinal Siri, prenderà coscienza sino a che punto lo spirito del mondo è penetrato dentro essa, si spaventerà”.
Ma come è penetrato questa mentalità, di cui Bianchi è oggi uno dei massimi alfieri? A mio modo di vedere all’epoca del Concilio, allorchè in molti si diffuse l’idea che col mondo, inteso in senso evangelico, occorresse trovare un modus vivendi pacifico e conciliante, sempre e comunque. Bisognerebbe anzitutto ritornare a quegli anni, per evitare di costruire leggende e miti come quelli che piacciono ai vari Melloni, Mancuso e, appunto, a Enzo Bianchi: il concilio non fu una pacifica e simpatica riunione di vescovi e periti, tutti in perfetto accordo tra loro, ma fu una lotta dura, che vide la presenza di posizioni problematiche e critiche, rispetto alla volontà di “aggiornamento” e “innovazione”, di molti uomini di grande spessore, dal cardinal Siri, più volte papabile, ai cardinali Ottaviani, Ruffini, Bacci, sino al Coetus Internationalis patrum, formato da centinaia di padri conciliari, e raccolto intorno a mons. Marcel Lefebvre.

I documenti conciliari sorsero dunque in mezzo alla tempesta, agli scontri, talora veramente aspri, tra “conservatori” e “progressisti”, con correzioni, emendamenti, e ambiguità, inevitabili laddove un documento nasca come mediazione, come compromesso tra posizioni divergenti. A mio modo di vedere, l’ambiguità più grande fu quella sull’atteggiamento da tenere, appunto, rispetto al mondo, allo spirito moderno e alle sue filosofie. Il concilio volle essere pastorale, e quindi soffermarsi proprio e soprattutto, in questo caso senza godere dell’infallibilità, sui modi, le strategie, per una nuova evangelizzazione, efficace e fruttuosa. Il principio guida, che fu indicato da Giovanni XXIII, fu quello di utilizzare, rispetto alla “severità” del passato, la “medicina della misericordia”.

Ci fu insomma un cambio di passo, che Romano Amerio, oggi riscoperto e finalmente ristampato da Fede & Cultura, commentò tra l’altro con queste profetiche parole: “Questo annuncio del principio della misericordia contrapposto a quello della severità sorvola il fatto che, nella mente della Chiesa, la condanna stessa dell'errore è opera di misericordia, poiché, trafiggendo l'errore, si corregge l'errante e si preserva altrui dall'errore. Inoltre verso l'errore non può esservi propriamente misericordia o severità, perché queste sono virtù morali aventi per oggetto il prossimo, mentre all'errore l'intelletto repugna con un atto logico che si oppone a un giudizio falso. La misericordia essendo, secondo S. theol., II, II, q. 30, a. 1, dolore della miseria altrui accompagnato dal desiderio di soccorrere, il metodo della misericordia non si può usare verso l'errore, fatto logico in cui non vi può essere miseria, ma soltanto verso l'errante, a cui si soccorre proponendo la verità e confutando l'errore. Il Papa peraltro dimezza un tale soccorso, perché restringe tutto l'officio esercitato dalla Chiesa verso l'errante alla sola presentazione della verità: questa basterebbe per sé stessa, senza venire a confronto con l'errore, a sfatare l'errore. L'operazione logica della confutazione sarebbe omessa per dar luogo a una mera didascalia del vero, fidando nell'efficacia di esso a produrre l'assenso dell'uomo e a distruggere l'errore” (Romano Amerio, Iota unum, Fede & Cultura).

Questo brano magistrale mi sembra possa essere utile per far fronte anche oggi a questo ottimismo mondano, che nasce all’interno del mondo cattolico, e che si presenta con alcune caratteristiche costanti: la condanna più o meno aspra delle decisioni e della pastorale della Chiesa del passato; il ripudio della Tradizione e il tentativo di presentare il Vaticano II come una sorta di nuova Pentecoste, di vero e proprio atto di nascita della cosiddetta “Chiesa conciliare”. Ottimismo mondano di cui il citato Bianchi costituisce uno degli esempi più solari, in quanto espressione di un tipo di cattolicesimo adulterato che ritiene che l’essenziale sia raggiungere una posizione condivisa, una mediazione, un punto di incontro, quale esso sia, tra la Verità di Cristo e le posizioni, anticristiche, del mondo. Se analizziamo il libro citato ne troviamo subito, nell’incipit, il significato di fondo: Bianchi vuole fare pulizia, anzitutto all’interno del mondo cattolico, mettere i puntini sulle i, spiegare quale debba essere il comportamento dei suoi fratelli di fede. Costoro, scrive Bianchi, debbono smetterla di riunirsi in “gruppi di pressione (sic) in cui la proposta della fede non avviene nella mitezza e nel rispetto dell’altro, per diventare intransigenza e arrogante contrapposizione a una società giudicata malsana e priva di valori”. La lettura del seguito fa capire bene il significato di queste parole, del tutto simili a quelle di un Augias o di un Odifreddi: esse sono una condanna chiara, anche se un po’ ipocrita nelle modalità, della posizione della Chiesa e dei cattolici, riguardo al referendum sulla legge 40 e alla questione dei pacs-dico.

Una condanna, in generale, di ogni tentativo legale e leale da parte dei cattolici, e non solo, di affermare valori non negoziabili in politica. Bianchi lo ripete più volte, spiegando quello che è ovvio, e cioè che “il futuro della fede non dipende da leggi dello stato”, ma dimenticando che i cattolici, come tutti gli altri cittadini, sono chiamati ad esprimere la loro visione di società, qui e oggi, e non a ritirarsi nelle sagrestie. Il cattolicesimo che Bianchi vorrebbe è invece insignificante e inesistente sul piano culturale e politico, e finisce addirittura per delineare una religiosità amorfa, astratta, spiritualista, che è lontanissima dall’idea originaria del cattolicesimo.

Ogni scontro e polemica attuale, ogni rinascita odierna dell’anticlericalismo, continua il monaco, è sempre colpa dei credenti, “è sempre una reazione a un clericalismo che si nutre di intransigenza, di posizioni difensive e di non rispetto dell’interlocutore non cristiano”. A parte che non si capisce bene, a leggere queste parole, a quale dibattito abbia assistito Bianchi in questi anni, il punto centrale è un altro: nel togliere al cristianesimo la sua capacità di incarnarsi nella realtà, per plasmarla concretamente, Bianchi finisce per negare cittadinanza al cristianesimo stesso e per scegliere come punto di riferimento assoluto e ingiudicabile, quasi metafisico, la Costituzione repubblicana. Da essa deriverebbe, udite, udite, “l’assoluto diritto dello stato di legiferare su tutte quelle realtà sociali fondate o meno sul matrimonio (sia religioso che civile)”. “Diritto assoluto”, scrive Bianchi: una affermazione, a ben vedere, che oggi, dopo l’esperienza delle statolatrie totalitarie, neppure il più laicista tra i giuristi arriverebbe, almeno nella teoria, a sostenere. In tutto il suo argomentare Bianchi annulla il concetto di Verità, affermando un relativismo pieno; sostiene la perfetta equivalenza tra fede e ateismo (“l’uomo può essere umanamente felice senza credere in Dio, così come può esserlo un credente”); nega di fatto in più passaggi, con linguaggio equivoco, ma chiaro, il primato petrino, a vantaggio del “primato del Vangelo”, e propone come unico riferimento del suo argomentare, da buon protestante, solo e soltanto la bibbia, la sua “lettura personale e diretta” (sic), etsi Ecclesia non daretur.

“Per un’etica condivisa” è appunto un inno ad un “modo”, ad uno “stile”, al “come”, con cui i cristiani dovrebbero presentarsi oggi ai non credenti: un modo, uno “stile”, inaugurato dal Concilio Vaticano II, che sarebbe “importante quanto il messaggio”. Coerentemente, in tutto il libro manca, appunto, il messaggio! Non vi è mai una affermazione chiara di una verità teologica o morale: si parla di “etica condivisa”, si lanciano sfrecciatine piuttosto velenose ai cattolici, al centro destra, a Berlusconi, a Maroni, a Mel Gibson, a Ferrara, come fossero loro i problemi della cristianità, ma poi non si arriva mai ai contenuti: tutto puro stile, buonismo a buon mercato, mai una parola, una posizione, quale che sia, sulla clonazione, la fecondazione artificiale, le famiglia, l’eutanasia, la sessualità, e tutti i problemi più scottanti dell’etica odierna. Al massimo qualche vago riferimento alla pace, e un accenno, velatissimo, per carità, alla 194, la legge che legalizza l’aborto, ricordando però, anzitutto e soprattutto, che i cattolici dovrebbero rispettare ogni legge nata dal “confronto democratico”, e proclamata, lo si ricordi, da quello Stato che ha potere “assoluto” di vita e di morte.

A Bianchi sfugge, come avrebbe detto Amerio, che lo stile è questione secondaria, nel senso che viene dopo, logicamente e non cronologicamente, perché l’Amore procede dalla Verità, e non viceversa. Gli sfugge, inoltre, che il suo irenismo indifferentista e relativista è stato già bollato da san Pio X, allorché deprecava quanti alla sua epoca si adoperavano per un “adattamento ai tempi in tutto, nel parlare, nello scrivere e nel predicare una carità senza fede, tenera assai per i miscredenti”, all’apparenza, ma in realtà priva di vera misericordia, perché spoglia di verità. A chi continuava a sponsorizzare una “conciliazione della fede con lo spirito moderno”, Pio X indicava il crocifisso, e ricordava che certe idee “conducono più lontano che non si pensi, non soltanto all’affievolimento, ma alla perdita totale della fede”. Perché se io non fossi un credente, e leggessi, per cercavi una parola di verità, il libro di Bianchi, arriverei alla conclusione che la verità non esiste, e che la mia sete di verità è roba da persone senza “stile”. Caro Bianchi, la verità, nella carità, mi dice sempre un’amica pro life, ma: la verità, per carità! Questo è l’unico stile, della Chiesa, di Cristo e del suo Evangelo, cioè della buona novella (vede che la novella, il messaggio, è importante?)
(Il Foglio, 26 aprile 2009).

Avvenire: recensione di "Contro la post-religione"

Prima del positivismo ottocentesco, i sapienti erano anche umanisti; oggi c’è invece l’idea che solo la scienza rappresenti in modo corretto la realtà.
Parla il latinista Oniga

L’umanesimo difeso dai cristiani
DI LORENZO FAZZINI
« L’attacco anticristiano è il pretesto per colpire il vero obiettivo, che non è il sen­timento religioso, ma ' la giungla del sedicente pensiero umanistico' » . Di qui nasce una « post- religione » di stampo « nichilista e consumista, fa­tale per l’intelligenza e oppressiva per la gioia di vivere » . Immerso nei suoi studi classici – è docente di Lingua e letteratura latina all’università di U­dine – Renato Oniga non ha trattenu­to un sobbalzo intellettuale «classico» di fronte alla pubblicistica anti- cri­stiana, da Piergiorgio Odifreddi a Ch­ristopher Hitchens passando per Cor­rado Augias. Ne è scaturito Contro la post- religione. Per un nuovo umane­simo cristiano ( Fede & Cultura, pp. 222, euro 18; tel. 045/ 941851), un sag­gio in cui il latinista friulano – sup­portato da Marc Fumaroli, membro dell’Académie française (che firma la pre­fazione qui pubblicata in ampi stralci) – condensa alcune riflessioni sulle re­centi polemiche anti- reli­giose.
Perché l’attacco anti- cri­stiano di Odifreddi è un’aggressione al pensie­ro umanistico?
« In Odifreddi ci sono alcu­ne accese prese di posizio­ne contro l’umanesimo: e­gli afferma che la scienza dovrebbe sostituire il ' sedicente' pensiero umanistico e che l’unico modo di pensare razionale sull’uomo sarebbe quello scientifico. Vuole arri­vare al ' pensiero unico', per cui solo la scienza sarebbe capace di sostituirsi alla filosofia e alla religione: una vera caricatura della scienza! Purtroppo, questo pregiudizio è rintracciabile an­che in una certa recente politica sco­lastica, quando si sostiene che l’Ita­lia, rispetto ad altri Paesi più ' evolu­ti', darebbe poco spazio alle materie scientifiche. In queste tendenze in­travedo il pericolo che la tradizione umanistica cada sotto i colpi di un pensiero scientista globalizzato » .
Quali sono i tratti principali della « post- religione »?
« Riprendendo alcuni spunti di Gior- gio Israel, che per primo ha denun­ciato questi aspetti del pensiero post­moderno, mi sembra che i dogmi principali siano l’odio di sé, lo scien­tismo e il relativismo. L’odio di sé si manifesta nella volontà di autodi­struzione della tradizione occidenta­le. Il relativismo viaggia sul piano eti­co: qualsiasi opinione può essere e­quivalente a un’altra, eccetto la scien­za, che ha valore categorico. Ho no­tato una cosa curiosa: gli argomenti u­sati oggi contro il cristianesimo non sono altro che una riproposizione del­le accuse dei pensatori pagani verso i primi cristiani, ad esempio le invetti­ve di Celso. È un po’ strano che, per criticare il cristianesimo, la modernità scientifica non trovi di meglio che ri­proporre accuse vecchie di 2000 an­ni, già confutate dagli apologeti cri­stiani! C’è pure un risvolto inquietan­te: nell’antichità si è iniziato disprez­zando il pensiero cristiano, poi si è ar­rivati alle persecuzioni. Odifreddi di­chiara che il cristianesimo è indegno della razionalità dell’uomo. Per qual­cuno, può diventare giusto combat­terlo » .
« Nemici » del cristianesimo, « super­sensibili » verso l’islam: come spiega la schizofrenia dei « post­religiosi » ?
« Primo: si tratta di una calcolata pru­denza, per non dire una certa vigliac­cheria. Prendersela con il cristianesi­mo apre molte porte in certi ambien­ti culturali: se si scrive un libello an­ti- cristiano, si riesce a pubblicarlo fa­cilmente. Dare alle stampe un volume critico sull’islam è più difficile: una casa editrice ci pensa due volte. Inol­tre, oggi l’islam viene strumentaliz­zato nel progetto di avversione al cri­stianesimo. L’estremismo islamico ha la potenzialità di mettere in discus­sione la civiltà cristiana come la li­bertà di parola o la condizione della donna. Chi nutre odio verso l’Occi­dente, utilizza tutto quello che gli fa comodo » .
Lei scrive: « Il tentativo di ' arruola­re' la cultura scientifica contro la cul­tura umanistica nella guerra antire­ligiosa va nettamente rifiutato » . Un « arruolamento » recente o risalente agli antichi?
« È la novità di una certa cultura mo­derna, a partire dal positivismo otto­centesco. Prima gli scienziati erano anche umanisti, basti pensare ad Ari­stotele o Galileo. Con Comte nasce in­vece l’idea che solo la scienza rap­presenti la realtà in maniera corretta. Va recuperato il concetto che tra scienza e umanesimo non vi è con­trapposizione, ma la sintesi è possibile nel­l’uomo come soggetto dei saperi. Non è un caso se proprio dai li­cei classici, dove tanto peso hanno le materie umanistiche, siano u­sciti molti scienziati, mentre non si può di­re che gli istituti tecni­ci abbiano sfornato numerosi premi No­bel… » .
Dai « post- religiosi » ci possono salvare i clas­sici?
« Sì. L’umanesimo è fondato sulla let­tura dei classici, nella classicità ci so­no risorse per combattere le degene­razioni dello scientismo e recuperare gli autentici valori di scienza, cultura e humanitas. Sono stati i greci e i la­tini ad avviare quelle riflessioni sul­l’uomo, poi illuminate dal cristiane­simo, che sono alla base della nostra civiltà, ad esempio nell’acquisizione dei diritti umani. L’umanesimo non è solo cristiano: anche l’islam e l’ebrai­smo hanno al loro interno grandi tra­dizioni umanistiche. Esso, più che la scienza, può svolgere oggi un ruolo importante contro le degenerazioni integraliste, formulando valori uni­versali come la tolleranza e l’apertu­ra alle altre culture » .
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«Il tentativo di arruolare la cultura tecnica contro quella letteraria nella lotta antireligiosa va rifiutato. Con valori universali i classici possono contrastare l’integralismo»
Destinazione

dalla Prefazione al volume Contro la post-religione
Fumaroli: la Chiesa ci ha regalato la benevolenza

La moda vuole che Dio sia morto, ma solo quello dei cristiani: la scienza ha dimo­strato che non esiste, mentre gli altri dèi, più antichi o più recenti, sdoganati dalla gene­rosità dell’antropologia, mantengono nel mondo il diritto di rimanere vivi e in piena for­ma. Poiché il Dio dei cristiani oggi è morto, in realtà lo era fin dall’inizio, e la conseguenza s’impone logicamente: il cristianesimo in ge­nerale è un lungo e gigantesco errore, che l’Eu­ropa deve cancellare dalla sua memoria, se vuole essere davvero emancipata, moderna, scientifica, e globale. Si concede, al massimo, di richiamarsi alla sociologia di Max Weber e relativizzare la damnatio capitis del cristiane­simo, quando ci si volge all’universo prote­stante: quei cristiani, almeno, con la loro etica del lavoro e del successo, se non con la loro teologia, hanno fatto degli Stati Uniti, dopo l’Inghilterra, l’Olanda e la Prussia, la nazione vincente della nostra modernità trionfante. Ma il cattolicesimo non ha alcuna scusa. Esso è davvero, o poco ci manca, l’errore assoluto. Come l’asino della favola di La Fontaine, Gli a­nimali ammalati di peste, è da lui che vengono tutti i nostri mali, e tutti gridano « dàgli » al col­pevole, in ultima analisi, di ogni ignoranza, di ogni tirannide e di ogni arretratezza. (…) Uno dei grandi meriti del cattolicesimo, ignorato dai suoi detrattori i­gnoranti, ma che do­vrebbe meritargli l’apprezzamento dei non credenti meno estranei alla storia e alla filologia, è di a­ver portato nel suo patrimonio e veicola­to fino a noi il fior fiore filosofico, mo­rale, e anche mitolo­gico- allegorico, della civiltà greco- latina di cui, in Occidente, la Chiesa di Agostino e di Girolamo ha preso il testimone tra III e IV secolo. (…) Siamo ormai stanchi del­l’antifona, ripetuta dal nazionalismo della filosofia tede­sca, secondo cui la luce greca sarebbe stata affievolita se non spenta dai Romani, pri­ma di essere completamente sotterrata dalla Chiesa romana, per riapparire infine nella lin­gua di Fichte e nella musica di Wagner. (...) Ag­giungerei un’altra prova a queste dimostrazio­ni, premesse di un lessico della civiltà europea di ascendenza cattolica, di cui è ormai divenu­ta evidente l’urgenza. Si tratta della fortuna, nell’Europa cattolica, della nozione aristoteli­ca di eutrapelia, « piacevolezza » . San Tommaso non si accontenta di importarla nel suo mira­bile Commento all’Etica a Nicomaco: ne fa una delle virtù cardinali del cristiano. Questa no­zione morale complessa era per Aristotele il privilegio dell’uomo libero di Atene: presup­poneva il sorriso, la leggerezza nella conversa­zione, il senso della distensione misurata, con­tagiosa e generosa. Tommaso la generalizza e la struttura nella gioia propriamente cristiana, ponendo così le premesse di tutta la letteratu­ra che l’umanesimo, sia italiano che francese, ha dedicato all’urbanità, alla sprezzatura, al sorriso, alla socievolezza benevola. È davvero un peccato che il giansenismo, eresia prote­stante nel seno stesso del cattolicesimo, abbia costretto la teologia morale cattolica, sulle di­fensive fin dal secolo XVII, a passare sotto si­lenzio l’eminente virtù dell’eutrapelia, una delle più graziose che l’Europa pre- moderna abbia praticato, uno dei segreti della sua gran­de arte. Nessuna virtù oggi è più dimenticata e violentata. «Il cattolicesimo ha importato in Europa l’eutrapelia di Aristotele cioè il sorriso, la gioia, la leggerezza. Finché venne il giansenismo...» Marc Fumaroli

Recensione "L'Europa"su Fides Catholica

Recensione di Giuseppe Brienza
Francesco Mario Agnoli
Europa. Fra diritti umani e ’68
[Fede & Cultura, Verona 2008, pp. 63, euro 7]
in
Fides Catholica.
Rivista di apologetica teologica
Anno III
n. 2
Frigento (AV) luglio-dicembre 2008
(pp. 632-634)

La tesi centrale di questo volumetto, che esce nella collana saggistica diretta da Giovanni Zenone e raccoglie sei interventi del magistrato e storico cattolico Francesco Mario Agnoli, è che sono all’opera nella società europea ed occidentale fattori e pensieri non più compatibili col tradizionale assetto dei diritti dell’uomo.
Nel primo capitolo, Anniversari (pp. 7-10), il presidente dell’Associazione culturale “Identità Europea” mette a confronto due ricorrenze del 2008 che, purtroppo, mostrano sempre più affinità e richiami comuni: il 60° della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, approvata dall’ONU nel 1948, ed il 40° della rivoluzione culturale del Sessantotto. Il mancato fondamento della prima ai solidi dettami della legge naturale ha prestato infatti il fianco all’invasione, da parte del relativismo post-sessantottino, anche di quello che sembrava l’ultimo baluardo secolare, nella modernità, dell’ordine portato dalla ragione oggettiva, vale a dire il mondo e la prassi dei diritti “universali” in quanto riconosciuti all’uomo in quanto tale.
Nel secondo capitolo, La crisi sociale dell’Europa (pp. 11-19), l’Autore offre quindi delle condivisibili riflessioni sugli effetti degli ultimi quarant’anni, negli ordinamenti civili e politici del Vecchio continente, di quella che può definirsi «[…] una rivoluzione politicamente fallita, ma anche una delle più riuscite, e delle più dannose, della storia umana per l’epocale mutazione della società europea (e non solo), dei suoi costumi, delle sue convinzioni, della sua morale» (p. 16).
Nel terzo capitolo, Il relativismo democratico (pp. 21-37), Agnoli da’ conto di uno dei principali motivi che spiegano il “successo” della rivoluzione sessantottina, il fatto, cioè, di essere intervenuta su un meccanismo maggioritario che, indubbiamente, «[…] si presta meglio di altri a rendere anche psicologicamente più accette le indebite invasioni di campo ai cittadini che, contribuendo con la propria volontà (anche se spesso è soltanto un’illusione) a fissare le regole del funzionamento dello Stato e della convivenza civile, facilmente si persuadono, esattamente come il demos ateniese del IV secolo a. C. che non esistano norme e principi che non siano soggetti, nella loro vincolatività e nella loro stessa esistenza, alla mutevole volontà umana» (pp. 34-35).
Di fronte al dilagare, nel corpo sociale e nei singoli individui, della convinzione, propria della sottocultura del Sessantotto, che tutto è relativo e, quindi, non esistono e non possono esistere immutabili valori universali, additati addirittura come incompatibili con la democrazia, la Chiesa cattolica si dimostra estremo baluardo del diritto naturale, pienamente consapevole del rischio della sommatoria del relativismo democratico con quello etico. «Di qui - commenta l’Autore - il grido di allarme lanciato da S.S. Giovanni Paolo nell’enciclica Veritatis splendor [a tutti i vescovi della Chiesa cattolica circa alcune questioni fondamentali dell’insegnamento morale della Chiesa, promulgata il 6 agosto 1993]:“Dopo la caduta, in molti Paesi, delle ideologie che legavano la politica ad una concezione totalitaria del mondo - e prima fra esse il marxismo -, si profila oggi un rischio non meno grave per la negazione dei fondamentali diritti della persona umana e per il riassorbimento nella politica della stessa domanda religiosa che abita nel cuore di ogni essere umano: è il rischio dell'alleanza fra democrazia e relativismo etico, che toglie alla convivenza civile ogni sicuro punto di riferimento morale e la priva, più radicalmente, del riconoscimento della verità”[n. 101]» (p. 35).
Nel quarto capitolo del saggio, La produzione normativa in regime democratico (pp. 39-45), Agnoli analizza, da giurista d’esperienza qual è, l’attuale meccanismo onnivalente che ha ridotto il diritto positivo occidentale ad accogliere in sé tutti i contenuti che vi siano immessi, con ciò funzionando esattamente nello stesso modo politica ed economia, democrazia e mercato, borse e parlamenti: «Ne consegue che la norma giuridica approvata dal parlamento non è più giusta (non potrebbe esserlo, mancando il termine di confronto: la giustizia) di quelle che avrebbero potuto essere emanate» (p. 41) e «La sostanziale identificazione fra politica, diritto e mercato, divenuti la Trimurti del nichilismo globale, determina una società che non offre rimedi, ma, tutt’al contrario, incentivi all’abbandono dei valori che un tempo si sarebbero definiti superiori» (p. 44).
Il quinto capitolo, Diritti dell’uomo (pp. 47-56), descrive così il salato “conto”, nell’ambito della teoria e della prassi della tutela della libertà e dignità umana, pagato da una democrazia, anche internazionale, che, abbandonate le solide categorie del diritto naturale, s’illude di poter continuare a proclamare volontaristicamente valori solo auto-definiti “universali” «[…] ma che, proprio in quanto si sostanziano in “posizione di norme”, si rivelano prodotto dello stesso meccanismo. Identici ne sono, la natura e il destino di immortalità, condizionata al permanere del consenso e, quindi, contraddittoriamente, temporanea» (p. 47).
Essendo prima il giuspositivismo e poi, definitivamente, con la caduta delle ideologie successiva al 1989, il nichilismo giuridico più che mai trionfanti, appare sempre più fondato il timore «[…] che la mancanza di un diffuso consenso sulla base “naturale” dei diritti umani comporti conseguenze negative che, in parte già manifestatesi, potrebbero aggravarsi fino a determinare il pericolo di una loro implosione» (p. 50).
Nel sesto ed ultimo capitolo dell’opera, intitolato L’attacco al Cristianesimo (pp. 57-63), l’Autore ritiene infine doveroso completare il suo quadro di analisi dando conto della “finalizzazione” del trionfante laicismo nichilistico, concretizzantesi soprattutto nell’attacco, reso sempre più violento ed esplicito a causa dall’inatteso protrarsi della resistenza, alla Chiesa cattolica in particolare, in quanto «[…] ultima linea di resistenza contro il trionfo finale del relativismo, l’unico castello non ancora totalmente conquistato nonostante le brecce aperte nelle sue mura e il desiderio di resa di una parte della sua guarnigione» (p. 57). Purtroppo non tutti i cristiani (o sedicenti tali) impegnati in politica (e tanto più ciecamente e ostinatamente quanto più alti sono i livelli occupati e i compiti assegnati) si mostrano consapevoli di questa realtà o, peggio, pur essendolo, vi antepongono altre considerazioni, tutte comunque estranee, ai motivi e alle esigenze della difesa della verità e della (ri)edificazione della civiltà europea.
Giuseppe Brienza

18 aprile La Leggenda nera di Papa Borgia - ROMA

Sabato 18 Aprile 2009 ore 17.00presso Aquisgrana Caffè Letterario
via Ariosto 28/30 00185 Roma
presentazione del Libro:
La leggenda nera di Papa Borgia
di Lorenzo Pingiotti ed. Fede & Cultura
www.aquisgrana.org/ 06.64821238