Recensione su Il Settimanale di Padre Pio

Indubbiamente la recente restaurazione del rito tradizionale della santa Messa, autorizzato e incoraggiato da Benedetto XVI nel 2007, sta favorendo in tutto il mondo e in tutta la Chiesa una silenziosa e diffusa rinascita spirituale, una ripresa della devozione e della pietà eucaristica soprattutto nelle giovani generazioni sia di laici cattolici, che di seminaristi e sacerdoti.
Ma il legame tra culto e cultura è a tutti noto e non esiste infatti, contro l’idea tutta moderna circa la presunta ragionevolezza dell’ateismo, un popolo o una nazione, in Occidente come in Oriente, che non abbia nella sua storia e nella sua arte, nella sua cultura e nei suoi costumi, un’impronta religiosa, sacrale, impregnata di trascendenza.
Il rito tradizionale della Santa Messa, oltre ad una nuova efficacissima barriera al processo contemporaneo di secolarizzazione, costituisce di per sé un valido tramite tra l’uomo di oggi e la nostra lunga storia di italiani, un popolo la cui identità è davvero incomprensibile senza far riferimento a quell’avvenimento cristiano, qui da noi giunto grazie a quegli stessi uomini che personalmente conobbero il Redentore, come i santi martiri Pietro e Paolo.
Il libro in questione (E. Cuneo, D. Di Sorco, R. Mameli, Introibo ad altare Dei, edizioni Fede & Cultura, 2008, euro 25) riassume perfettamente quanto sopra detto. Gli autori hanno tra i 24 e i 32 anni e sono tutti e tre musicisti, specializzati nel canto lirico e gregoriano, nella liturgia o nell’uso di strumenti da concerto. La loro pregevole opera, che si avvale di una prefazione del card. Castillòn Hoyos e di una postfazione di padre Konrad zu Löwenstein, si presenta come un manuale per l’apprendimento del servizio liturgico dell’Altare, ed è dedicato dunque in special modo ai chierichetti e ai ministranti; il suo contenuto però è ben più ampio.
Infatti parlando della sacra Liturgia (cap. 1), dei Libri liturgici (cap.2), dei ministri del culto (cap. 3) o del canto e della musica sacra (cap.6), si viene immersi nella nostra più vera e profonda dimensione culturale e storica: ogni uomo di cultura e ogni fedele cattolico dovrebbero accostarsi a queste dense pagine, scritte con grande semplicità e slancio giovanile, per trarne quei punti di riferimento culturali, estetici e spirituali che permettono da un lato di uscire dalla banale volgarità del quotidiano, e dall’altro di capire, al di là dell’aspetto folkloristico o meramente letterario, il valore e il senso di tante tradizioni locali, (processioni, pellegrinaggi, feste patronali e usi secolari) che ancora si conservano, nonostante tutto, nella nostra vecchia Europa. Il nostro variegato e imponente patrimonio musicale, artistico e architettonico (pensiamo alle tante basiliche e cattedrali) di cui da italiani andiamo giustamente fieri, se si spiega in generale con la grande religiosità del nostro popolo, deve pure moltissimo proprio alla forma liturgica codificata da Papa san Pio V nel XVI secolo, che in realtà risale ai primi albori dell’era cristiana.
Tutti riconoscono poi che l’uomo di oggi soffre un processo di sradicamento, di estraniamento culturale, soprattutto nelle metropoli, e di una spaventosa crisi di identità. Crediamo con forza che il modo migliore di far fronte a tali malattie tipiche dell’epoca della globalizzazione, si trovi, più che in tecniche di tipo psicologico o metodi “spirituali” presi in prestito da altre civiltà, nella fuga dal ritmo e dalla mentalità asfissiante della città secolare, abbattendone i falsi idoli del consumismo, della carriera e del devastante culto di sé.

Proprio in tal senso il massimo culto reso a Dio, cioè quello sobrio e ascetico, sacrale e gerarchico della liturgia romana bimillenaria, così come accuratamente descritto dai nostri giovani autori, costituisce l’antidoto migliore alla perdita di senso e allo smarrimento esistenziale, ed inoltre, anzitutto, il luogo e il momento da cui ripartire per ricreare in noi e intorno a noi, i valori e i costumi dell’intramontabile e indistruttibile cristiana civiltà.
Fabrizio Cannone

Avvenire su Iota unum

Pubblichiamo uno stralcio dell'articolo si Cesare Cavalleri su Avvenire di martedì 1 settembre 2009

Ma la tesi resta forte: il Vaticano II non ha affatto rotto col passato

Aveva diritto a un risarcimento il filosofo e teologo Romano Amerio che nel 1985 pubblicò il suo Iota unum e fu tacciato di anticonciliare, passatista, addirittura lefebvriano. Adesso che il ponderoso volume è disponibile [nell'edizione di Fede & Cultura), si può riflettere più serenamente non solo sulle questioni sollevate da Amerio, ma anche su tutto il periodo postconciliare. Lo «sdoganamento» di Amerio corona gli sforzi e la cocciutaggine del suo fedele discepolo Enrico Maria Radaelli, il quale, incoraggiato anche dal filosofo dell’Università Lateranense Antonio Livi, pubblicò nel 2005 un profilo del maestro ticinese, favorevolmente recensito dalla Civiltà cattolica nel 2007.

L’Osservatore romano, che nel 1985 non aveva pubblicato la recensione favorevole a Iota unum redatta dal prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, Angelo Paredi, nel 2007 ha riservato ampio spazio al convegno indetto per il decennale della morte di Romano Amerio, pubblicando integralmente l’ampia relazione conclusiva di monsignor Agostino Marchetto. E qui tocchiamo un primo merito di Amerio, cioè di contrastare l’interpretazione del Vaticano II come discontinuità, svolta, rottura con la tradizione, quasi che da esso fosse nata una Chiesa diversa da quella fondata da Cristo.
È questa la tesi sviluppata nei cinque volumi della Storia del Concilio Vaticano II elaborata dall’Istituto per le Scienze religiose di Bologna, animato da Dossetti, Alberigo e Melloni (in ordine decrescente di statura), tesi che monsignor Marchetto, non solo nel convegno su Amerio ma anche in ponderosi volumi, ha saputo smantellare, con soddisfazione dell’Osservatore. Dunque, Romano Amerio è innanzitutto indomito paladino della continuità della tradizione, dalla consegna delle chiavi a Pietro fino alla fine dei tempi, attraverso tutti i Concili finora celebrati e quelli che seguiranno in futuro. Si tratta, per dirla coi classici, dello «sviluppo omogeneo del dogma».

Un secondo punto a favore di Amerio lo possiamo sintetizzare con le parole che un suo sincero estimatore, don Divo Barsotti, ebbe a scrivere in tempi non sospetti: «Amerio dice in sostanza che i più gravi mali presenti oggi nel pensiero occidentale, ivi compreso quello cattolico, sono dovuti principalmente a un generale disordine mentale per cui viene messa la caritas avanti alla veritas, senza pensare che questo disordine mette sottosopra anche la giusta concezione che noi dovremmo avere della Santissima Trinità».

Amerio dimostra che il dialogo non può essere separato dall’annuncio, allo scopo di favorire la libera conversione dell’interlocutore; che una pastorale valida non può non essere teologica, e che una teologia valida non può non avere un ancoraggio metafisico. È quanto ha sostenuto monsignor Mario Oliveri, vescovo di Albenga-Imperia, nel profilo di Amerio appena pubblicato su Studi cattolici.

È chiaro che il primato della verità sulla carità va inteso in senso ontologico, non cronologico, dato che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono coeterni e coessenziali. Nella pratica ascetica, dottrinale, pastorale, sociale, tutto si tiene, come indica Benedetto XVI nella Caritas in veritate segnalando «il bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della veritas in caritate (Ef 4, 15), ma anche in quella, inversa e complementare, della caritas in veritate.

La verità va cercata, trovata ed espressa nell’"economia" della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità». Iota unum, che si presenta con una certa dispersione analitica, va interpretato alla luce di questo criterio unificante, peraltro senza l’esagerazione di presentare Amerio come nuovo san Tommaso