Violenza anticristiana
Tanto clamore per la supposta mancanza di libertà di stampa in Italia, mentre da tempo si ignora la mancanza di libertà e le continue persecuzioni che i cristiani subiscono in maniera intensa a partire dagli anni settanta; ma guai a parlarne sui media, i cristiani non esistono proprio.
Chi si è scaldato più di tanto per esempio per la barbara aggressione che ha subito il 27 settembre scorso un vecchio frate a Sanremo, un extracomunitario, probabilmente nordafricano, al grido di Allah ak bahr lo ha massacrato a colpi di bottiglia, infierendo sull'uomo con calci e pugni anche quando era ormai a terra. Ora il frate di Sanremo, padre Riccardo, 76 anni, rischia di perdere l'uso di un occhio. A riportare la notizia e' il''Secolo XIX''.
Sempre nello stesso giorno in Egitto un cristiano-copto, Hanna Amir Rezq, 26 anni, assassinato da un autista musulmano, Nayer Mansour Sahrab, offeso perché l’uomo aveva preferito salire su un’altra vettura rispetto alla sua. Il conducente islamico, di fronte al rifiuto di Rezq, lo ha aggredito con ripetute coltellate alla schiena e all’addome. Oltre alla vittima, l’aggressore ha ferito i suoi fratelli Maurice e Amin, e anche il nipote ventenne di Rezq, Ashraf Maher Amir. Ultimo episodio la crocifissione di sette giovani sudanesi, è successo il 13 agosto ma la notizia è apparsa ora. E’ stata Al Qaida, con la complicità del governo di Khartoum, sostenuto dalla Cina. Ma perché questi assassinii non fanno notizia? Si chiede Renato Farina su Il Giornale. Siamo appassiti, facciamo schifo tutti anche i cristiani e i vescovi che in queste settimane erano impegnati su un altro tema più gustoso e in grado di suscitare titoloni: la moralità privata di Berlusconi. Il Papa invece non fa che ricordare martiri e persecuzioni, indicando luoghi e Paesi. Amaramente Farina evidenzia che noi cattolici ci facciamo scrivere dai relativisti della cultura europea perfino l’agenda dei nostri sentimenti.
Episodi tra i tanti che troviamo in un best seller della giovane casa editrice Fede & Cultura (www.fedecultura.com), di Verona, Il Libro Nero delle nuove persecuzioni anti-cristiane, di Thomas Grimaux, un giovane scrittore che ha viaggiato proprio in questi Paesi di persecuzione, le sue descrizioni ci fanno immergere nella realtà quotidiana, nei fatti concreti e reali. Il libro è una lunga litania, a tratti anche un po’ fastidiosa, non tanto per tenere la contabilità degli atti di persecuzione violenta, quanto piuttosto coglierne l’ampiezza.
Il libro tra le tante domande si chiede per quale motivo la Chiesa è la vittima sistematica delle aggressioni e, come pare, il bersaglio preferito dagli assassini? La prima parte sviluppa le persecuzioni dell’induismo e del buddismo che a volte sembrano nascoste, poi il testo s’interessa delle violente persecuzioni che ancora oggi i cristiani subiscono dai paesi comunisti nella Cina capital comunista, a Cuba in Corea del Nord ma anche in Venezuela, in Bolivia. Ma se il fanatismo induista e quello buddista non sono operanti sui nostri territori e se il comunismo ha un peso inferiore che nel passato, l’islamismo però sta guadagnando terreno. Il Libro Nero delle nuove persecuzioni anti-cristiane in conclusione si interroga, su qual’è il futuro dei cristiani in terra d’islam?
Le violenze nei confronti dei cristiani è un continuo stillicidio che va dai Paesi islamici cosiddetti moderati fino a quelli più estremisti. Dal divieto assoluto di celebrazioni cristiane in Arabia Saudita, il divieto assoluto addirittura di recitare il rosario in casa propria, non sono forse una violenza inaudita? L’associazione caritativa, Aiuto alla Chiesa che Soffre riporta la notizia che alla dogana in Arabia Saudita, sono considerati prodotti di contrabbando non tanto le droghe, i liquori o il materiale pornografico, ma tutti gli oggetti a forma di croce, anche a scopo ornamentale, tutti i libri cristiani, tutte le foto o le pubblicazioni cristiane.
Si chiede Grimaux. C’è di più, gli incitamenti all’odio diffusi attraverso i media o i manuali scolastici costituiscono una preparazione psicologica a secondare un appello all’assassinio. In Algeria altro Paese considerato moderato, il proselitismo cristiano è da qualche tempo legalmente proibito. Il presidente degli ulema musulmani, ha affermato: “Nuovi crociati tentano di cristianizzare gli algerini. La moschea, la scuola, i media e le istituzioni dello Stato vi si devono opporre”. Fortunatamente non sempre si arriva al grave episodio della decapitazione di tre liceali cristiane, nell’isola di Celebes, nella regione di Poso, in Indonesia; Theresia aveva 15 anni, Alfita, 17 anni e Yarni 15 anni, mentre andavano a scuola, vengono improvvisamente attaccate da integralisti islamici il 29 ottobre 2005.
Non frequentate alcun estraneo (all’Islam). Non fate alcun compromesso con gli atei. Bisogna ucciderli. Punto e basta. Chi ha pronunciato queste parole? Non è un imam che vive in Arabia Saudita o in Pakistan, ma a Torino, non è il solo, scrive Grimaux, l’Italia del Nord pullula di simili imam radicali.
Domenico Bonvegna
domenicobonvegna@alice.it
Karl Rahner - Alle origini del buonismo
La contraffatta teologia di Karl Rahner
Nell’immaginario educato dal trionfante relativismo, “buono” è il qualunque pensatore inteso a scongiurare i conflitti scatenati dall’affermazione che esistono princìpi tra loro irriducibili.
Padre Giovanni Cavalcoli o. p., l’autore del magistrale saggio “Karl Rahner – Il Concilio Tradito” sulla teologia del teologo tedesco, edito in questi giorni dalla veronese Fede & Cultura, rammenta, al proposito, che “Il voler distinguere con assolutezza il vero dal falso sembra a molti espressione di presunzione e di intolleranza, sorgente di discordia e mancanza di rispetto per le idee e la coscienza degli altri. Il concetto stesso di una religione assolutamente vera che primeggi sulle altre appare a molti una pretesa imperialistica di questa sulle altre religioni” (“Karl Rahner Il Concilio tradito”, pag. 16).
Il pregiudizio buonista, infatti, esige pro bono pacis che un’affermazione vera dal punto di vista di colui che la pronuncia, sia vera anche dal punto di vista di colui che dichiara l’esatto contrario.
Soggiacente alla bontà che vuole il sacrificio della ragione sull’altare dell’armonia ad ogni costo, èla sentenza del guru sessantottino Herbert Marcuse, che (nel saggio “Eros e civiltà”) ha definito fascista (che per lui significava intollerante e intrinsecamente violento) il principio di non contraddizione, secondo cui un’affermazione non può essere vera e falsa nello stesso tempo e sotto il medesimo profilo.
Va da sé che il contrasto tra l’intollerante verità e la pace è una figura sofistica, concepita dai filosofi ultramoderni di scuola francofortese per nascondere la decisione di aggirare i princìpi indeclinabili della logica, princìpi che (a loro avviso) non sono iscritti e leggibili nella realtà ma inventati dal fascista Aristotele.
Ora padre Cavalcoli cercando i possibili ispiratori della patologica avversione alla verità, non ha incontrato gli apostoli della pace ma il maestro di Karl Rahner, Martin Heidegger, l’autore dello stravolgente principio secondo cui “la verità non sta nel giudizio col quale l’uomo adegua il suo pensiero all’essere, ma sta nella comprensione atematica, nell’esperienza trascendentale, come situazione esistenziale emotiva del soggetto autocoscienze, nel quale l’essere si identifica con l’essere pensato, in modo tale che la verità del pensiero è al contempo la verità dell’essere e la verità del soggetto” (op. cit., pag. 41).
Heidegger (e al suo seguito Rahner) vantavano la loro appartenenza alla più alta e aggiornata scuola di metafisica. In realtà il loro pensiero approda a risultati non molto diversi da quelli ottenuti da Jean Paul Sartre e da Claude Levy Strauss, autori di uno sgangherato sistema antimetafisico, tendente ad abbassare l’intelletto umano al livello della sensazione animalesca.
Svilimento della ragione umana e retrocessione dell’immanentismo moderno al panteismo antico, costituiscono l’orizzonte ultimo del pensiero heideggeriano e rahneriano.
Ridotto la filosofia ad universale esperienza emotiva, l’errore , la non adeguazione dell’intelletto alla realtà, sprofonda in un cappello a cilindro: di qui l’opinione temeraria (affermata da Rahner) che tutti conoscano la verità attraverso la c. d. esperienza trascendentale.
Rahner afferma che la concordia inizia dal riconoscimento che tutti sono nella verità e nessuno sbaglia. Di conseguenza propone la tesi che attribuisce agli atei la qualifica di cristiani anonimi, che in quanto tali sono naturalmente destinati alla beatitudine eterna.
Per attingere un tale pensiero Rahner è costretto ad aderire al disconoscimento modernista della dottrina cattolica sulla grazia: “la natura-grazia è sufficiente ad assicurare la felicità e la divinizzazione dell’uomo” (op. cit. pag. 173).
Oscurata la nozione della grazia la trascendenza divina svanisce: Rahner “finisce nel vedere nel soprannaturale niente più che uno sviluppo totale e finale del naturale o un approfondimento di quest’ultimo, come se l’uomo elevandosi al massimo delle sue possibilità potesse diventare Dio”.
Il sottotitolo del saggio (“Il Concilio tradito”) manifesta l’opinione dell’autore sull’influsso dell’opinione rahneriana sui cristiani anonimi nelle stravaganze ecumeniche elucubrate in nome di un presunto “spirito del concilio Vaticano II”.
Ma non solo nelle stravaganze postconciliari: padre Cavalcoli, infatti, facendo propria e sviluppando una tesi di monsignor Brunero Gherardini, dimostra che il buonismo di Rahner si è insinuato di soppiatto nei testi conciliari, ad esempio nella traduzione della Gaudium et Spes, che invita ad un esame più serio e profondo delle ragioni che si nascondono nella mente degli atei, quasi che esistano delle serie ragioni per essere atei.
Di qui l’auspicio, formulato nella magnifica conclusione, che il Magistero della Chiesa sconfessi la finzione buonista e “metta in luce con chiarezza quali sono le dottrine nuove del Concilio, non secondo un’esegesi di rottura, ma come esplicazione della Tradizione, lasciando così una giusta libertà di critica nei confronti invece di quelle disposizioni pastorali che sembrano o si sono verificate meno opportune e magari rivedibili o abrogabili per assicurare e promuovere il bene e il progresso della Chiesa nella Verità” (op. cit., pag. 345).
Senza ombra di dubbio l’auspicio di padre Cavalcoli corre incontro alle sagge intenzioni di Benedetto XVI, oltre che alle speranze di tutti i credenti. La lettura del suo pregevole saggio, pertanto, è raccomandata a quanti hanno a cuore il vero bene della Chiesa cattolica.
Recensione su Il Settimanale di Padre Pio
Indubbiamente la recente restaurazione del rito tradizionale della santa Messa, autorizzato e incoraggiato da Benedetto XVI nel 2007, sta favorendo in tutto il mondo e in tutta la Chiesa una silenziosa e diffusa rinascita spirituale, una ripresa della devozione e della pietà eucaristica soprattutto nelle giovani generazioni sia di laici cattolici, che di seminaristi e sacerdoti.
Ma il legame tra culto e cultura è a tutti noto e non esiste infatti, contro l’idea tutta moderna circa la presunta ragionevolezza dell’ateismo, un popolo o una nazione, in Occidente come in Oriente, che non abbia nella sua storia e nella sua arte, nella sua cultura e nei suoi costumi, un’impronta religiosa, sacrale, impregnata di trascendenza.
Il rito tradizionale della Santa Messa, oltre ad una nuova efficacissima barriera al processo contemporaneo di secolarizzazione, costituisce di per sé un valido tramite tra l’uomo di oggi e la nostra lunga storia di italiani, un popolo la cui identità è davvero incomprensibile senza far riferimento a quell’avvenimento cristiano, qui da noi giunto grazie a quegli stessi uomini che personalmente conobbero il Redentore, come i santi martiri Pietro e Paolo.
Il libro in questione (E. Cuneo, D. Di Sorco, R. Mameli, Introibo ad altare Dei, edizioni Fede & Cultura, 2008, euro 25) riassume perfettamente quanto sopra detto. Gli autori hanno tra i 24 e i 32 anni e sono tutti e tre musicisti, specializzati nel canto lirico e gregoriano, nella liturgia o nell’uso di strumenti da concerto. La loro pregevole opera, che si avvale di una prefazione del card. Castillòn Hoyos e di una postfazione di padre Konrad zu Löwenstein, si presenta come un manuale per l’apprendimento del servizio liturgico dell’Altare, ed è dedicato dunque in special modo ai chierichetti e ai ministranti; il suo contenuto però è ben più ampio.
Infatti parlando della sacra Liturgia (cap. 1), dei Libri liturgici (cap.2), dei ministri del culto (cap. 3) o del canto e della musica sacra (cap.6), si viene immersi nella nostra più vera e profonda dimensione culturale e storica: ogni uomo di cultura e ogni fedele cattolico dovrebbero accostarsi a queste dense pagine, scritte con grande semplicità e slancio giovanile, per trarne quei punti di riferimento culturali, estetici e spirituali che permettono da un lato di uscire dalla banale volgarità del quotidiano, e dall’altro di capire, al di là dell’aspetto folkloristico o meramente letterario, il valore e il senso di tante tradizioni locali, (processioni, pellegrinaggi, feste patronali e usi secolari) che ancora si conservano, nonostante tutto, nella nostra vecchia Europa. Il nostro variegato e imponente patrimonio musicale, artistico e architettonico (pensiamo alle tante basiliche e cattedrali) di cui da italiani andiamo giustamente fieri, se si spiega in generale con la grande religiosità del nostro popolo, deve pure moltissimo proprio alla forma liturgica codificata da Papa san Pio V nel XVI secolo, che in realtà risale ai primi albori dell’era cristiana.
Tutti riconoscono poi che l’uomo di oggi soffre un processo di sradicamento, di estraniamento culturale, soprattutto nelle metropoli, e di una spaventosa crisi di identità. Crediamo con forza che il modo migliore di far fronte a tali malattie tipiche dell’epoca della globalizzazione, si trovi, più che in tecniche di tipo psicologico o metodi “spirituali” presi in prestito da altre civiltà, nella fuga dal ritmo e dalla mentalità asfissiante della città secolare, abbattendone i falsi idoli del consumismo, della carriera e del devastante culto di sé.
Proprio in tal senso il massimo culto reso a Dio, cioè quello sobrio e ascetico, sacrale e gerarchico della liturgia romana bimillenaria, così come accuratamente descritto dai nostri giovani autori, costituisce l’antidoto migliore alla perdita di senso e allo smarrimento esistenziale, ed inoltre, anzitutto, il luogo e il momento da cui ripartire per ricreare in noi e intorno a noi, i valori e i costumi dell’intramontabile e indistruttibile cristiana civiltà.
Fabrizio Cannone
Avvenire su Iota unum
Ma la tesi resta forte: il Vaticano II non ha affatto rotto col passato
Aveva diritto a un risarcimento il filosofo e teologo Romano Amerio che nel 1985 pubblicò il suo Iota unum e fu tacciato di anticonciliare, passatista, addirittura lefebvriano. Adesso che il ponderoso volume è disponibile [nell'edizione di Fede & Cultura), si può riflettere più serenamente non solo sulle questioni sollevate da Amerio, ma anche su tutto il periodo postconciliare. Lo «sdoganamento» di Amerio corona gli sforzi e la cocciutaggine del suo fedele discepolo Enrico Maria Radaelli, il quale, incoraggiato anche dal filosofo dell’Università Lateranense Antonio Livi, pubblicò nel 2005 un profilo del maestro ticinese, favorevolmente recensito dalla Civiltà cattolica nel 2007.
L’Osservatore romano, che nel 1985 non aveva pubblicato la recensione favorevole a Iota unum redatta dal prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano, Angelo Paredi, nel 2007 ha riservato ampio spazio al convegno indetto per il decennale della morte di Romano Amerio, pubblicando integralmente l’ampia relazione conclusiva di monsignor Agostino Marchetto. E qui tocchiamo un primo merito di Amerio, cioè di contrastare l’interpretazione del Vaticano II come discontinuità, svolta, rottura con la tradizione, quasi che da esso fosse nata una Chiesa diversa da quella fondata da Cristo.
È questa la tesi sviluppata nei cinque volumi della Storia del Concilio Vaticano II elaborata dall’Istituto per le Scienze religiose di Bologna, animato da Dossetti, Alberigo e Melloni (in ordine decrescente di statura), tesi che monsignor Marchetto, non solo nel convegno su Amerio ma anche in ponderosi volumi, ha saputo smantellare, con soddisfazione dell’Osservatore. Dunque, Romano Amerio è innanzitutto indomito paladino della continuità della tradizione, dalla consegna delle chiavi a Pietro fino alla fine dei tempi, attraverso tutti i Concili finora celebrati e quelli che seguiranno in futuro. Si tratta, per dirla coi classici, dello «sviluppo omogeneo del dogma».
Un secondo punto a favore di Amerio lo possiamo sintetizzare con le parole che un suo sincero estimatore, don Divo Barsotti, ebbe a scrivere in tempi non sospetti: «Amerio dice in sostanza che i più gravi mali presenti oggi nel pensiero occidentale, ivi compreso quello cattolico, sono dovuti principalmente a un generale disordine mentale per cui viene messa la caritas avanti alla veritas, senza pensare che questo disordine mette sottosopra anche la giusta concezione che noi dovremmo avere della Santissima Trinità».
Amerio dimostra che il dialogo non può essere separato dall’annuncio, allo scopo di favorire la libera conversione dell’interlocutore; che una pastorale valida non può non essere teologica, e che una teologia valida non può non avere un ancoraggio metafisico. È quanto ha sostenuto monsignor Mario Oliveri, vescovo di Albenga-Imperia, nel profilo di Amerio appena pubblicato su Studi cattolici.
È chiaro che il primato della verità sulla carità va inteso in senso ontologico, non cronologico, dato che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono coeterni e coessenziali. Nella pratica ascetica, dottrinale, pastorale, sociale, tutto si tiene, come indica Benedetto XVI nella Caritas in veritate segnalando «il bisogno di coniugare la carità con la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della veritas in caritate (Ef 4, 15), ma anche in quella, inversa e complementare, della caritas in veritate.
La verità va cercata, trovata ed espressa nell’"economia" della carità, ma la carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità». Iota unum, che si presenta con una certa dispersione analitica, va interpretato alla luce di questo criterio unificante, peraltro senza l’esagerazione di presentare Amerio come nuovo san Tommaso
Recensione di Iota Unum del Prof. Roberto de Mattei
Fino a ieri introvabile, il capolavoro di Romano Amerio Iota Unum è adesso disponibile [...]. La [...] ristampa si deve alla casa editrice Fede & Cultura (645 pagine, 40 euro), con prefazione di mons. Luigi Negri e interventi di don Divo Barsotti e del padre Giovanni Cavalcoli. [...]
[...] Noi non possiamo che rallegrarci [...][dell' evento],che rimuove la coltre di silenzio addensata su uno dei maggiori filosofi italiani del Novecento, da quando, nel 1985, Ricciardi pubblicò la prima edizione di Iota Unum, con il sottotitolo Studio delle variazioni della Chiesa Cattolica nel secolo XX. L’opera fu seguita da tre ristampe e tradotta in sei lingue, raggiungendo decine di migliaia di lettori in tutto il mondo, ma venne ignorata dal mondo cattolico ufficiale e dagli stessi avversari chiamati a confronto.
La mole e la ricercatezza stilistica resero più difficile la diffusione del testo, il cui valore non sfuggì però ai più attenti interpreti del nostro tempo, quali Augusto Del Noce. Romano Amerio, nato da padre astigiano a Lugano nel 1905 e morto in questa stessa città, il 16 gennaio 1997, prima di divenire rigoroso analista della crisi postconciliare, fu studioso raffinato di Campanella e di Manzoni. Iota unum apparve nello stesso anno del Rapporto sulla fede del cardinale Ratzinger, che, nella sua celebre intervista a Vittorio Messori, avviava una riflessione sul Concilio Vaticano II, poi culminata nell’altrettanto noto discorso alla Curia romana del 22 dicembre 2005, sull’“ermeneutica delle continuità”.
Amerio da parte sua aveva partecipato ai lavori conciliari come “esperto” del vescovo di Lugano, e poi, per un ventennio, aveva seguito accuratamente le vicende ecclesiali, prima di consegnarne a queste pagine la spietata ma oggettiva diagnosi. In Iota unum, egli porta alla luce, con deferente franchezza, le responsabilità delle stesse gerarchie ecclesiastiche per la grave crisi che oggi soffre la Chiesa.
La causa di questa crisi risale, a suo avviso, alla perdita di un principio ultimo e trascendente, che unifica e ordina tutti i valori secondari del mondo, sostituito da «uno pseudoprincipio immanente che rifiuta di trovare fuori del mondo le ragioni del mondo e fuori della vita nel tempo il destino dell’uomo» (§332). La religione dell’immanenza si dissolve nel mondo, incorporandone quella pluralità di valori disconnessi e indipendenti tra loro, che la minano e distruggono dall’interno.
Al cuore del problema sta il rapporto tra Caritas e Veritas, ovvero la necessità di non separare, come è accaduto dopo il Concilio, la carità dalla verità. In questo Amerio anticipa sorprendentemente Benedetto XVI che, nella sua ultima enciclica Caritas in Veritate, ha ribadito che la carità si radica nella verità, perché «solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta» (n. 3).
Amerio difende i “praembula razionali” della fede contro il fideismo di coloro che vogliono privarla della sua dimensione veritativa. Sul piano logico e gnoseologico, la principale minaccia viene dal “pirronismo”, l’indirizzo scettico degli antichi sofisti oggi riproposto dai “neoterici”, i relativisti che inseguono le “novità” ad ogni costo. «Il fondo dell’attuale smarrimento, mondiale ed ecclesiale – afferma il filosofo di Lugano – è il pirronismo, cioè la negazione della ragione» (§148). Negazione della ragione significa dissolvimento di ogni certezza, e perdita della verità. La “filosofia del dialogo” affermatasi nel postconcilio esprime il passaggio dalla verità alla “ricerca della verità”, un tema di fondo a cui Amerio dedica alcune tra le pagine più felici del suo libro. Per la teologia neoterica, osserva, la nota della fede, anziché la stabilità dell’assenso è la mobilità della perpetua ricerca.
Tale concezione dinamica della fede deriva dal modernismo, per il quale la fede è funzione del sentimento del divino e le verità concettuali sono mutevoli espressioni di quel sentimento. «La parte erronea di questa concezione sta nel prendere per umiltà una disposizione d’animo che è invece di squisita superbia. Chi infatti alla verità preferisce la ricerca della verità che cosa preferisce? Preferisce il proprio moto soggettivo e l’agitazione vitale dell’io a quel valore per fermarsi nel quale il moto soggettivo gli è dato» (§165).
L’errore per cui si stima più la ricerca che il possesso della verità è una forma dell’indifferentismo e del relativismo contemporaneo. Quello che nell’ordine logico è il pirronismo, nell’ordine metafisico è il “mobilismo”, un carattere della Chiesa conciliare secondo cui tutto è movimento e non c’è nessuna parte del sistema cattolico che non sia in fase di mutazione. Il mobilismo è la mentalità che stima il divenire sopra l’essere, il moto sopra la quiete, l’azione sopra il fine (§157-158). La sistemazione teoretica più compiuta del mobilismo è la filosofia del divenire di Hegel, abbondantemente penetrata nella cultura cattolica e negli atteggiamenti pratici del clero e dei laici. Al mobilismo Amerio contrappone la filosofia tomistica e platonico-aristotelica delle “essenze”.
Nella lettera con cui il 31 agosto 1985 presenta a Del Noce Iota Unum, egli spiega chiaramente il fine per cui lo ha scritto: «difendere le essenze contro il mobilismo e il sincretismo propri dello spirito del secolo». Del Noce gli risponde di ritenere che «quella “restaurazione cattolica” di cui il mondo ha bisogno abbia come problema filosofico ultimo quello dell’ordine delle essenze».
L’essenza, in filosofia, è la specifica identità di ogni cosa. Esiste, anche per la religione cattolica, una essenza propria, che è ciò che la rende immutabile e uguale a sé stessa nel tempo. È impossibile per il cattolicesimo variare nella sua essenza, ma è proprio a questa variazione sostanziale che tendono i “neoterici” del XX secolo. «Tutta la questione circa il presente stato della Chiesa è chiusa in questi termini: è preservata l’essenza del cattolicesimo?» (§318). Solo nella fedeltà a questa immutabile essenza sta la soluzione della crisi epocale che stiamo attraversando.
Non si tratta di «leggere i segni dei tempi», bensì di «leggere i segni dell’eterna volontà, che sono presenti a ogni tempo e stanno in faccia a tutte le generazioni fluenti nei secoli» (§333). Iota Unum si conclude con le parole della Scrittura: «Custos quid de nocte?» («Sentinella, che notizie porti della notte?») (Isaia 21, 11). Questo è in fondo il ruolo svolto da Amerio. Egli ci appare come una sentinella solitaria sullo sfondo di quella battaglia notturna sul mare in tempesta che lo stesso Benedetto XVI ha evocato, descrivendo il clima postconciliare.
Chi desidera conoscere meglio la figura e le tesi di Amerio, [...] può ricorrere agli atti del Convegno di studi svoltosi ad Ancona nel 2007, raccolti con il titolo Romano Amerio, Il Vaticano II e le variazioni nella Chiesa cattolica del XX secolo (Fede & Cultura, Verona 2008). Chi voglia invece approfondire il tema di Iota Unum, deve integrarne la lettura con l’opera capitale, appena pubblicata, di mons. Brunero Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare (Casa Mariana editrice, Frigento 2009). (R. d. M.)
Introibo ad altare Dei su Divinitas 2/09
Recensione al volume "Introibo ad altare Dei" a cura di Mons. Brunero Gherardini
Un vivo plauso ai tre Coautori, nonché alla benemerita Editrice “Fede e Cultura”, per la sollecitudine con cui hanno risposto all’esigenza, sempre più diffusa, di maggior conoscenza della liturgia classica, specie dopo il Motu-proprio “Summorum Pontificum” (7 luglio 2007) del Pontefice f.r. L’unico rammarico è, per me, quello di darne notizia non con altrettanta sollecitudine, anche se ciò non è dipeso da cattiva volontà.I Coautori non son preti, appartengono al mondo della musica e del canto sacro, specialmente a quello gregoriano. S’interessan pure di filosofia, di teologia ed ovviamente di liturgia. A tre mani – stavo per dire a tre voci – han composto questo “Vademecum”: un preziosissimo ausilio teorico-pratico per la retta celebrazione liturgica, considerata nella più ampia accezione del termine, non escludendo l’applicazione pratica del Motu-proprio sopra ricordato.La materia è distribuita in modo un po’ singolare: i primi dieci capitoli si riferiscono un po’ a tutto quel che s’intende per liturgia: le fonti, i libri liturgici, i ministri, i paramenti, il luogo sacro, il canto e la musica, l’anno liturgico, la santa Messa, il Vespero, il servizio all’altare. Seguon poi tre parti dedicate all’apparato liturgico, alle cerimonie in genere e a quelle speciali.Una prefazione dell’Em.mo Card. Dario Castrillón Hoyos ed una postfazione del p. Konrad zu Löwenstein di Venezia, oltre ad una scelta e pertinente bibliografia, aggiungono un ulteriore prestigio a quello intrinseco dell’opera. Non si può che ripetere: un vivo plauso!Trovo interessante – oltretutto perché ho sempre sostenuto altrettanto – che la ragione della più facile comprensione dei testi, addotta dalla riforma conciliare, è mal posta: non si tratta infatti di ragione linguistica, ma di penetrazione del mistero e d’adesione ad esso, per la qual cosa più che la lingua vale la contemplazione orante. Utile anche la descrizione dei singoli passaggi cerimoniali per celebrare la liturgia tradizionale: i preti delle ultime leve sanno a mala pena che l’attuale rito s’iniziò con Paolo VI ed ignorano quello precedente; i preti della mia età hanno in gran parte dimenticato il rito della loro prima Messa e del loro primo servizio ministeriale. Degna di nota anche l’osservazione sulle traduzioni ed il conseguente pericolo di slittamenti semantici nel passaggio da una lingua all’altra. Anche per questo, oltre all’espressività propria e alla duttilità della lingua di Roma, sarebbe stato opportuno rimanere alla fissità del latino. Esprimo infine la mia grande ammirazione per lo spirito di fede, di preghiera e d’amore alla Chiesa che i tre Autori esprimono in ogni loro pagina.Se mi si permette, faccio un rilievo critico: non insisterei più di tanto sulla continuità fra il nuovo rito e quello tradizionale, ed ancor meno fra il Vaticano II – globalmente considerato – e la Tradizione ecclesiastica. Che ci siano affermazioni in tal senso, nessuno lo nega; che sian qualcosa di più del famoso specchietto per le allodole, è da provare. Aggiungo che non basta qualificare la Tradizione con l’aggettivo “vivente” per giustificare ciò che le è estraneo: è un cavallo di Troia introdotto nella cittadella della liturgia e della Chiesa.
Mons. Brunero Gherardini
Estratto da: Divinitas. Rivista internazionale di ricerca e di critica teologica, 2 (2009) 237-238.
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